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6 gennaio 2022
La febbre dell’oro (The Gold Rush) di Charlie Chaplin, con Charlie Chaplin, Mack Swain, Georgia Hale, Usa, 1925
«Sarà paradossale ma la tragedia stimola il senso del ridicolo
», afferma Chaplin nell’Autobiografi a, perché in fondo è un
«atteggiamento di sfi da, riscatta la nostra impotenza» di fronte
alle grandi forze naturali. Chaplin era rimasto profondamente
impressionato da alcune foto sui cercatori d’oro nell’Alaska di
fi ne Ottocento. Erano immagini di una sorta di formicaio umano.
Così, usando come traccia un romanzo sulla spedizione Donner
(1846) in cui un gruppo di pionieri, spersi sulle montagne del
North-West, fu costretto al cannibalismo, egli trasporta il suo
vagabondo nel gelo del Klondike 1898 in piena corsa all’oro.
L’umorismo di Charlot, insito nel suo essere sempre fuori posto,
si accentua a contatto con la natura ostile della Febbre dell’oro,
specchio di una cultura. Se il suo stile che non muta mai, ha fatto
spesso storcere il naso ai cinéphiles, qui esso è, più che mai, fondato
su una profonda conoscenza dei meccanismi del comico. Realtà,
messaggio, segno somatico interagiscono sul fi lo di uno straordinario
cortocircuito che si traduce in trovate continue. Alla fi ne
Charlot riesce a trovare l’oro e, sulla nave del ritorno, lo vediamo
rivestito di una lussuosa pelliccia, in lotta con essa, ma il percorso è
stato terribile di solitudine, sfi orando abissi tragici, e ben più reali
di quelli della sua capanna in bilico sul precipizio. Le grandi gag
a sfondo alimentare – le scarpe bollite per pranzo; il sogno-danza
dei panini; le allucinazioni da astinenza del grosso Jim che vede
Charlot in forma di pollo – costituiscono altrettante fi gurazioni
dei sogni proibiti di una società di fame, ne incarnano i fantasmi.
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