27 giugno 2011

Il castello d’Evoli tra storia e leggenda

Il castello d’Evoli di Castropignano è un monumento simbolo della cultura e della civiltà della transumanza. Giovanni d’Evoli, già barone di Frosolone, nobile di ascendenza normanna, lo costruì nel 1362 sui ruderi di antichi insediamenti, che recenti indagini archeologiche fanno risalire all’età del bronzo. Giovanni d’Evoli è iniziatore di una vasta e fiorente industria armentizia che pratica la transumanza, attività alla quale la famiglia d’Evoli, che eserciterà il suo dominio feudale su Castropignano fino all’eversione della fedaulità, resta legata per secoli, dando un notevole costante contributo alle case regnanti, che si succedono nel dominio dell’Italia Meridionale, per il governo di questa fondamentale attività economica. Tra l’altro Andrea d’Evoli, fidato consigliere di Alfonso d’Aragona dà alle stampe la Prammatica “De mena pecudum” 1447, raccolta di leggi e regolamenti che governano la transumanza oltre a determinare i criteri per stabilire l’ammontare della “fida”. Nel corso dei secoli subì una serie di interventi, il più importante dei quali fu portato a termine nel 1636 da Giambattista d’Evoli che trasforma il castello in palazzo residenziale.

La mole imponente e la ricchezza degli arredi e delle opere d’arte che conteneva si giustifica anche con il fatto che i d’Evoli da Castropignano dominavano su un vasto territorio che si estendeva fino a Capracotta, che fino alla prima metà dell’ottocento era uno dei mercati più importanti d’Italia per il commercio della lana. La lotta tre armentari e agrari, che si sviluppa nel Molise a partire dal cinquecento, vede inevitabilmente soccombere gli armentari, con il lento decadimento della pastorizia transumante e della civiltà e cultura ad essa connessa. Il castello viene venduto nella prima metà dell’ottocento, spogliato di tutto e abbandonato. Nell’arco di pochi decenni è ridotto a rudere, conservando comunque la capacità di testimoniare una storia plurisecolare, ricca di interesse e di fascino, come è per le storie e per i monumenti “marginali” e sconosciuti. (p.s)

... E a proposito di questo immenso palazzo, dopo ispezione locale, e dopo accreditate tradizioni, torna acconcio rammemorare esser sito all’estremo di questo abitato, in contrada Leone, o Palazzo per antonomasia. Si eleva sui ruderi del primitivo Castello, dopo una spianata a seguito delle case agglomerate dell’abitato in rione leone. Percorso tale spazio, un portone ne dà l’ingresso. Dopo pochi palmi in salita si presenta un secondo portone più piccolo. In prima entrata a sinistra, sotto l’atrio coverto, vi è camera per le guardie. Si entra in un gran cortile simmetrico, cui d’intorno si accede a fondaci, e cantine, stalloni e stalle, e cisterne, non senza speciali entrate ai quarti, e quartieri, ben disposti per fattori, erari, agenti, guardiani, e bassa corte, e per tutti poi i dipendenti una grande stanza a focolaio, nel comune riscaldamento. Si sale, di sopra, al quarto nobile, mediante ampia ed elegante gradinata, che, dopo ben largo riposo, immette in una gran sala, resto dell’antico Castello, cui dappresso segue altra più piccola; e poi lo studio in due stanze, con il dietro l’armeria, e poi la cappella, ed il riposto; seguendo alla parte di oriente una fila di stanze, che formavano il quarto detto del Signore, specialmente decorato nelle mura ricoperte con damaschi e splendidi arazzi in seta, e con gli usci a lucida bianca con dorature; e con all’estremo da un lato il loggiato, ed all’altro lato un ampio balcone, che dà luce a splendida stanza, senza enumerare i diversi camerini di servizio. Al lato opposto, ossia a mezzogiorno e a tramontana si veggono molte altre stanze, suddivise a quarti e quartini; un di essi si chiama tuttora il quarto del Vescovo, perché veniva abitato dal Vescovo di Trivento, che, parente del Barone, veniva qui a trattenersi a lunga dimora.

Le stanze quasi tutte a volta; con poche a soffitte, fra le quali ultime si distingueva quella della gran sala, opera a cassettone rinomata. Nelle finestre, o nelle porte interne vi è profusione di travertino lavorato, con al di sopra degli architravi gli stemmi rilevati di famiglia, da ogni parte poi vedonsi li muri larghi e solidissimi; onde ben a ragione l’edifizio è a considerarsi un palazzo fortificato. Trovarsi abbondantemente e nobilmente arredato; ma caduto in amministrazione giudiziaria venne tutto denudato e poi venduto.

Il Castello d'Evoli raccontato da Eugenio Cirese, Poeta del Molise

Torno a casa dopo una lunga assenza e il castello che taglia il cielo, dritto e severo; e i colli ancora brulli, e il fiume voluttuosamente disteso a valle, hanno la voce della mia anima commossa. Solo, a vespro, sono tornato al castello che ascoltò per lunghe ore in brevi giorni il fremito della mia passione e (ricordi Alfredo?) il nostro passo, cauto tra le macerie, e le voci di commossa ammirazione per i resti di un’arte nostra voluta, nel tetro luogo, come un sorriso di bontà, da uno degli ultimi duchi, forse per rimarginare e per far dimenticare il singhiozzo degli antenati ed il gemito degli oppressi.

La bella sala decorata da un pittore certamente di scuola napoletana, ancor fresca e ben conservata, malgrado l’inerzia degli attuali proprietari; le due bifore di linea perfetta che davan luce al cortile interno; la balaustra dai sostegni snelli scolpita nel 1643 da Valentino Silvestri da Sepino… E bene, non ho ritrovato più nulla! La bella sala è crollata; è crollato anche il resto del soffitto che copriva il salone dove si riunivano spesso a convegno i patrioti della valle del Biferno durante la prima guerra di indipendenza.

La balaustra è distrutta, i sostegni e qualche frontone asportati e trasformati perfino, mi dicono, in pietre sepolcrali! Solo le bifore, prive di steli, guardano desolate. Restano in piedi le mura, ma i proprietari hanno portato via tutti i travi sostegno e, tra breve, anche le mura cadranno. Così, nel secolo di tutte le rinascenze avrà fine uno dei più antichi e vetusti castelli del Molise. E qui sa quante cose degne e belle son morte o morranno presto così, nel Molise e fuori, per trascurataggine del Governo e per incuria delle speciali commissioni regionali le quali sono un po’ come l’araba fenice… Che nel Molise ci sia una commissione, si chiama anche questa così?, dei monumenti e scavi è certo; è certo, anzi, che di essa fanno parte attiva… e derativa ingegni robusti e lucidi: il segretario De Renzis, il paziente ordinatore della biblioteca provinciale Giovanbattista Masciotta; ricercatore infaticabile di notizie storiche molisane, chiuse in volumi robusti di note e ricchi di documentazioni; Alfredo Trombetta, anima di artista e di poeta, illustratore insuperato di bellezze nostre; Luigi Gamberane, austera, pensosa anima sannita; Franco Scarano, studioso di antichità classiche… Cosa sia e che cosa faccia ancora (‘) sappiamo; sparsa tra i colli del Molise, studia, ricorda, illustra. Ma basta studiare, ricordare, illustrare? No, non basta: conservare bisogna. E per conservare è necessario riunirsi, visitare, constatare, spendere energia e tenacia e chiedere al governo che non lasci in mano ai vandali, che non abbandoni all’impeto del vento e dell’acqua tutti i segni dell’essere e del divenire d’una terra. Quelli che possono trasportarsi nei musei e quelli che devono rimanere sul posto, forza, vita, anima del passato e dell’avvenire: le mura, tagliate tra cielo e roccia. Nidi di falco e stemmi di popolo.

Eugenio Cirese

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