16 febbraio 2019

L'Eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni

CAST Monica Vitti, Alain Delon, Lilla Brignone, Francisco Rabal, Rossana Rory, Louis Seigner. Ne L’eclisse i due amanti (ancora la Vitti e Alain Delon), dopo essersi detti che si sarebbero rivisti “domani, il giorno dopo ancora e ancora quello dopo” si abbracciano. Durante questo abbraccio entrambi guardano per un attimo in camera, con l’espressione di chi è amaramente consapevole di quanto quelle promesse siano vanemediacritica_l_eclisse_290 e di quanto l’attrazione reciproca sia stata solo una momentanea via di fuga dal proprio deserto interiore, dall’incapacità di, per dirla banalmente, amare e di amarsi e dall’impossibilità di comprendere e “comunicare” se stessi; di come sia stata un illusorio, ostinato e vano tentativo di combattere queste incapacità cercando una via di fuga impossibile, se non nel silenzio o nella scomparsa.
Non servono più, come nei due film precedenti, le parole di rammarico o di disperata protesta, e così, dopo l’amara e silenziosa presa di consapevolezza dell’abbraccio e dello sguardo in macchina, ai protagonisti non resta che sparire e lasciare spazio all’astrazione; volti di passanti che vagano e architetture asettiche, fredde e quasi spaventose, che siano riprese dall’alto in panoramiche quasi post-apocalittiche o che siano dettagli di staccionate o di marciapiedi. È il definitivo trionfo del paesaggio metafisico e allegorico fin dagli inizi centrale nel cinema di Michelangelo Antonioni, non solo nel trittico dell’incomunicabilità – si guardi la rilevanza delle architetture, per esempio, in Cronaca di un amore −, e che nei dieci celebri minuti finali de L’eclisse diventa definitivamente “post-umano”. Il paesaggio smette di essere semplicemente una metafora dell’impossibilità di comunicare e di “comunicarsi” e dell’aridità interiore e, prendendosi tutto lo spazio dell’inquadratura e della narrazione, reclama il suo ruolo; quello cioè di essere l’unico elemento possibile con cui leggere una società sempre meno umanista e un’umanità che, una volta avuta dal progresso l’illusione di capire se stessa fin nelle intimità più profonde, ha scoperto che questo è impossibile e causa solo dolore e smarrimento atroce. Come in una sorta di triplice climax; interno al film – man mano diventano sempre più invadenti le sequenze con il paesaggio urbano “protagonista” -, interno alla trilogia – negli altri due film il paesaggio era più “accompagnato” dalla parola – e interno all’intera filmografia dell’autore ferrarese, dove si è ritagliato uno spazio sempre più evidente. Dominando un film enorme e attualissimo.

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