29 dicembre 2021

Luci del varietà (1950) di Alberto Lattuada

Avrei voluto scrivere due righe di commento al film e le avevo pronte ma poi mi sono fermato. Ho pensato fosse più giusto far parlare Totò. Il Principe della Risata non è presente in questa pellicola ma agisce per interposta persona in Peppino De Filippo, qui nella sua più memorabile e riuscita parte cinematografica. È sua la malinconica maschera eterna del guitto di periferia, costruita e sfruttata solamente in questo film, in basco nero ed impermeabile. Dice Totò: «Io so a memoria la miseria, e la miseria è il vero copione della comicità. Non si può far ridere, se non si conoscono bene il dolore, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita». Il film ebbe una gestazione difficile ed ancor oggi la disputa sulla vera paternità della regia è ancora aperta. Lascio anche qui la parola a Dante Maggio che prese parte al film e che dichiarò: «In "Luci del Varietà" Fellini non fece praticamente niente. Veniva di tanto in tanto, però chi dirigeva era Lattuada. È un personaggio che stimo, anche se a volte fa dei film che capisce solo lui. Uomo di grande cultura, isterico, bugiardo, è comunque affascinante. Lo conobbi all'epoca in cui lavorava al "Pettirosso" con Maccari. Allora veniva spesso a casa mia perchè se la passava malissimo. Dopo, quando l'ho rivisto ed era il Fellini mondiale, ci furono grandi abbracci, baci e promesse. E poi niente. Sí, Fellini ha la promessa facile, promette anche quando uno non gli chiede niente». Entrambi gli interventi sono tratti dal volume " L'avventurosa storia del cinema italiano" vol.1 di Franca Faldini e Goffredo Fofi, edizioni Feltrinelli (1979)

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