8 gennaio 2019

Whore (Puttana) 1991 - Film completo



Liz (una Theresa Russell impressionante per intensità), questo il nome della ragazza di vita, passeggia sul marciapiede aspettando clienti: guêpière rossa, corpetto argento e scarpe nere, la lucciola racconta la sua esistenza da forzata del sesso a pagamento.

La sua confessione a un immaginario interlocutore è il risultato-sintesi di una serie di confidenze raccolte dallo stesso Hines quando faceva il tassista per Londra. Utilizzando un linguaggio violento, brutale e volgare, a tratti perfino insostenibile, l’opera di Ken Russell è un bisturi rovente che affonda nella carne della natura (dis)umana (ancor più meritorio visto che il sesso rimane sempre fuori campo), e lascia ferite che, al termine della visione, difficilmente si rimarginano.

La macchina da presa segue Liz con un distacco glaciale, pedinandola al ritmo dei tacchi che percuotono l’asfalto. Le sue confessioni in camera sono rivolte ad uno specchio/vetro che interroga e mette a disagio lo spettatore (a maggior ragione se uomo). Whore è un ritratto freddo e razionale di un umanità al capolinea, immersa nell’oscurità del vizio e persa nei meandri del possesso: «Il mio mestiere non c’entra con l’amore, è più vicino all’odio, non è neanche sesso quello che vogliono, è… una vendetta!». Più che un’affermazione, questa di Liz, appare come una vera e propria condanna.

Non a caso il film è immerso in una luce livida, che negli interni squallidi e maleodoranti (cessi, sotterranei, cinema di periferia, stazioni della metropolitana) è costituita da una violenta luce al neon, mentre negli esterni claustrofobici, stretti tra cunicoli, colonne di marmo, e anfratti urbani il sole non riesce mai a penetrare e l’atmosfera rimane d’acciaio. Ken Russell mostra senza renitenze e con glaciale pudore i particolari oggettivi (e dolorosi) della pratica della prostituzione vista come un’azione reiterata e disumanizzata con Liz che, entrando nella “parte” spegne lo sguardo e atteggia il corpo alla pesantezza sciatta del mestiere, dimostra tutta la meccanicità immateriale dell’eros a pagamento. La violenza rimane nelle parole di Liz e nei suoi atteggiamenti, che sono come indotti per recitare una parte: quella della puttana, compiacente e adulatrice con i clienti, «perché questo è quello che vogliono»; ma la violenza è latente ed esplode in tutta la sua ferocia quando entra in campo Blake (che già nel nome rimanda all’oscurità), il pappone che “vigila” sulla sicurezza delle sue schiave.

Un imprenditore del sesso che dirige la su “fabbrica” prima marchiando a fuoco le proprie “operaie” (il tatuaggio), poi aprendole lo stomaco con un coltello quando disertano il loro dovere. L’opera di Ken Russell equivale all’entrare in una galleria con i fari spenti (non a caso il film si apre dentro un tunnel) in attesa dello scontro frontale: quello con un’esistenza che per scelta (il matrimonio fallito, l’ingenuità adolescenziale) e per condanna (il rapporto di “lavoro” con Blake che festeggia il primo anno di protezione come se fosse il primo anniversario di matrimonio), sembra evocare ogni istante il desiderio di morte (Liz accenna più volte al suicidio). Su tutto il film è sospesa la figura del rasta, una specie di buon samaritano-urban warrior, che salva la vita a Liz e che le regala un fuggevole attimo di tenerezza. È solo un istante, perché poi lei si incammina fiera e orgogliosa (ma anche rassegnata) lungo il sotterraneo di un garage: dove in fondo si intravede la luce.

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